Sono stati diffusi i dati della produzione industriale in Germania ed è andata peggio di quanto ci si aspettava: si è registrata una diminuzione del 2,7% rispetto allo stesso mese del 2018, mentre secondo gli analisti il calo si sarebbe dovuto fermare all’1,4%. Il problema vero è che le stime non prevedono nemmeno una crescita nei mesi successivi, in grado di mitigare la caduta di luglio.
Se ciò dovesse accadere, con ogni probabilità il prodotto interno lordo calerà ancora, per il terzo trimestre consecutivo. Dovesse accadere, e tutto fa pensare accadrà, la Germania sarà tecnicamente in recessione. Tutto ciò perché è crollato l’export tedesco, che da solo fa la metà del Pil tedesco. Lo scorso giugno le esportazioni sono scese dell’8% rispetto all’anno precedente: erano tre anni che non si assisteva a un rallentamento così marcato.
Soprattutto sono crollate le esportazioni di automobili verso la Cina, a causa dei dazi imposti da Trump contro Pechino. Infatti i dazi limitano le esportazioni cinesi negli Usa, rallentando l’economia cinese: conseguentemente se i cinesi vendono meno prodotti agli americani comprano meno automobili dai tedeschi. Per l’Italia è un grosso problema perché noi siamo quelli che vendono ai tedeschi alcuni componenti delle automobili o dei macchinari che poi loro vendono in Cina.
Difatti lo scorso giugno, insieme alle esportazioni sono calate anche le importazioni: se la Germania vende meno automobili in Cina compra meno componenti in Italia. Da ciò si può facilmente intuire come in realtà la “locomotiva d'Europa” sia il nostro principale partner commerciale, davanti a Francia e Stati Uniti. Non c’è Paese al mondo in cui esportiamo e da cui importiamo beni e servizi come con la Germania.
Chiaramente questo non vuol dire che non abbiamo problemi con la Germania: in molti contestano ai tedeschi di tenere bassi i salari e i costi di produzione per poter competere sui mercati mondiali. Il problema, come dicono, è che se i principali acquirenti dei nostri prodotti hanno un basso potere d’acquisto finiranno per comprare meno.
Gli italiani, in altre parole, vorrebbero che i tedeschi fossero più “spendaccioni” sia per quanto riguarda la spesa privata, sia per quanto riguarda quella pubblica, quando l’economia tedesca va bene. Pertanto quando è in crisi è notte fonda per tutti. Il dibattito sul superamento della crisi è aperto, ma per la prima volta dopo decenni, il ministro delle finanze Olaf Scholz ha dichiarato di essere disponibile ad aumentare la spesa pubblica, con interventi extra fino a 50 miliardi di euro cioè pari a quanto è costata alla Germania la Grande Recessione dieci anni fa. I margini per fronteggiare una nuova crisi ci sono, ha detto Scholz, perché la Germania ha ridotto il debito/Pil sotto il 60% in questi dieci anni di crescita.
E quindi può permettersi di spendere e di sforare il rapporto del 3% tra deficit di bilancio e prodotto interno lordo. Soltanto in questo modo la crisi tedesca può apparentemente essere un bene per i nostri conti pubblici, nel senso che la Commissione Europea potrebbe chiudere un occhio sulle nostre spese fuori misura. Lo ha già fatto lo scorso anno del resto, quando la rigidità del commissario europeo all’economia Pierre Moscovici si è infranta sulla decisione di Emmanuel Macron di fare una manovra economica a debito per provare ad arginare la ribellione dei gilet gialli. Dovesse farlo anche la Merkel, avremmo gioco fin troppo facile nel dire banalmente “perché i tedeschi si e noi no”? Detto questo, non dobbiamo dimenticarci che il nostro problema è un debito pubblico che vale il 132% del Pil. Possiamo approfittare della temporanea benevolenza della Commissione Europea, ma non di quella dei mercati. Se il debito è troppo alto e rischioso, non se lo compra comunque nessuno, se non a tassi d’interesse molto elevati.
Siamo in sostanza di fronte ad un punto cruciale. Probabilmente potrebbe cambiare il modello di crescita economica del Vecchio Continente. Se la Germania non potesse più fondare il suo benessere sulle esportazioni nei Paesi extra europei, dovrebbe puntare sul suo mercato interno, nazionale o continentale. Meno automobili, e più infrastrutture, per dirla con uno slogan. Meno competitività sui mercati esteri, e più potere d’acquisto sul mercato interno.
E più investimenti in tecnologie innovative, visto anche che l’industria dell’auto europea rischia di rimanere spiazzata dalla rivoluzione della mobilità elettrica, nella quale Cina e Stati Uniti sono molto più avanti di noi. Nel frattempo però potrebbero crescere forze anti-europee e ultra liberiste come Alternative fur Deutschland, che potrebbe portare la Germania nella direzione opposta: meno tasse alle imprese per aumentare ulteriormente la competitività contro Usa e Cina, a scapito del mercato interno e del commercio coi Paesi europei.
È un orizzonte possibile: nelle prime due elezioni regionali dopo il rallentamento dell’economia, in Sassonia e nel Brandeburgo, AfD ha rispettivamente raddoppiato e triplicato il suo consenso. Una prospettiva cui si aggiunge la fine dell’era Merkel, che già ha annunciato che non si ricandiderà. L’incertezza regna sovrana insomma. E l’incertezza non fa certamente bene all’economia.
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