Un grande Presidente della Repubblica Italiana, forse “il Presidente”, quello più amato e vicino al popolo, amava sostenere come fosse meglio la peggiore delle democrazie piuttosto che la migliore delle dittature. E, personalmente, non posso che sposare in pieno il pensiero di Sandro Pertini, figura istituzionale autenticamente partigiana e militante, di cui le nuove generazioni poco sanno, se non grazie ai racconti dei loro genitori.
Il più grande regalo che la nostra Repubblica ci ha lasciato in dono è rappresentato senz'altro dalla Costituzione, i cui princìpi fondamentali mantengono un'attualità di contenuto nonostante i sessant'anni di età. Portati splendidamente. In particolare, l'articolo primo della Costituzione (o, più precisamente, la sua prima parte) recita: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Il lavoro, dunque, come strumento e fine dell'affermazione piena di ogni cittadino.
Tuttavia, troppo spesso si assiste non solo a periodi più o meno preoccupanti di disoccupazione (non si trova lavoro, pur cercandolo) e/o di inoccupazione (non cerco lavoro, tanto non si trova), ma di atteggiamenti discriminatori o persecutori posti in essere dai datori di lavoro nei confronti di chi quel lavoro ce l'ha e farebbe di tutto per tenerselo stretto.
È bene, allora, ricordare che ogni datore di lavoro dovrebbe preoccuparsi che, sul luogo di lavoro, vi sia un ambiente lavorativo sano, con una buona qualità dei rapporti personali. Oltre ad essere un imperativo morale e anche una condizione per mettere i dipendenti in condizione di lavorare al meglio e produrre di più, la tutela della salute e della sicurezza del dipendente è soprattutto un obbligo di legge che grava su ogni datore di lavoro. In certi casi, però, il disagio del lavoratore non deriva dai ritmi del lavoro e dalle normali dinamiche che si registrano in qualsiasi ambiente lavorativo. Accade qualcosa di diverso: il datore di lavoro, oppure i colleghi, cominciano ad assumere dei comportamenti vessatori nei confronti di un dipendente che assumono un carattere sistematico e ricorrente.
Al ricorrere di certi presupposti, questa situazione, estremamente sgradevole per il dipendente, viene detta mobbing, orizzontale (se posto in essere da un collega) o verticale (se posto in essere dal datore di lavoro), nei casi più gravi tali da indurre il dipendente ad andarsene e a dare le dimissioni dal proprio posto di lavoro.
Queste condotte, oltre a costituire un illecito civile, che legittima la richiesta di reintegra sul posto di lavoro o il risarcimento del danno, molto spesso costituiscono reati, che vanno dalle lesioni personali (art. 582 del codice penale) al delitto di violenza privata (art. 610 del codice penale), quando ad esempio si costringe il lavoratore a firmare la lettera di dimissioni rappresentando, in caso contrario, il pericolo concreto di una futura ritorsione.
Caro Presidente Pertini, ci manchi davvero tanto.
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