“È una situazione complicata, può solo peggiorare”.
Nella stanza d’ospedale, l’uomo era disteso supino, corpo e sguardo immobili.
Non era a lui che il medico si stava rivolgendo.
“Seppure non dovesse avere altre crisi respiratorie, comunque non potrà camminare, parlare, alimentarsi”.
Ornella, in piedi vicino al letto, ascoltava con apparente distacco le parole del medico. “E quindi?” si limitò poi a chiedere, continuando a guardare suo padre Maurizio, l’uomo disteso sul letto.
“E quindi…” riprese il medico, esitando, “il nostro consiglio in questi casi è di aiutarlo…”.
“A fare cosa?”, fu la domanda, formulata ora, con un certo grado di diffidenza.
“A liberarsi…”
Ornella aveva capito. Senza degnare il medico di un cenno, si avvicinò al padre, abbassandosi sino all’altezza del viso, e gli sussurrò all’orecchio: “Papà, ma tu vuoi morire?”
L’uomo rimase con gli occhi aperti, del resto li teneva sempre così, senza nessuna apparente reazione.
La figlia provò a formulare una domanda diversa: “Papà, ma io sono tua figlia?”.
Il padre chiuse e riaprì le palpebre.
“E lui”, chiese allora la figlia, indicando il dottore, “è un giornalista?”.
L’uomo rimase con gli occhi aperti, fissi.
A quel punto Ornella formulò la domanda decisiva: “Vorresti tornare a casa?”.
Papà Maurizio chiuse le palpebre, più lentamente di prima. Poi le riaprì, sempre lentamente.
Un sì convinto.
* * *
Ornella tornava a casa di sera. Mai prima delle otto e spesso più tardi. Qualunque ora fosse, trovava il padre sveglio, nella sua stanza, sempre nella stessa posizione supina, a volte su un fianco per evitare le piaghe da decubito. La signora che se ne occupava per tutto il giorno, a quel punto, si ritirava. Restavano così, insieme e da soli, padre e figlia. Nella fissità dello sguardo e del corpo di lui, la palpebra teneva aperto il canale di comunicazione tra loro.
“Ti racconto una storia?”. Il padre non diceva mai di no. Una dinamica che alla figlia ricordava quando era il padre a porle la stessa identica domanda, e lei, senza mai dire di no, dovunque si trovasse, sul letto, sul divano o sul tappeto, trovava il modo di accucciarsi su di lui, pronta all’ascolto.
Ora che toccava a lei raccontare, si accucciava lo stesso. Poggiava il viso sul cuscino, vicino a quello del padre, e iniziava a raccontare. Le soddisfazioni o le preoccupazioni sul lavoro, l’uscita con un’amica, i propositi per il domani. Qualche volta chiedeva consiglio. La palpebra era sempre saggia. Ornella si riconosceva nelle risposte del padre. Era ciò che pure a lei sembrava giusto. E quella palpebra che si abbassava, in segno di assenso, era proprio ciò di cui aveva bisogno.
“Papà hai sonno?”. Alla domanda diretta, il padre non abbassava mai la palpebra per dire di sì. Però a un certo punto si addormentava. Ornella, a quel punto, gli dava un bacio sulla fronte, chiudeva l’ideale libro dei racconti e spegneva la luce.
* * *
Le favole di Ornella non riguardavano mai le vicende sentimentali. Questo sino a che, dopo qualche settimana in cui era uscita con un uomo, avvertì di essere innamorata. A quel punto, fece cenno al padre di ciò che le passava per la mente e per il cuore e le sembrò di scorgere una reazione ancora più attiva di quanto non accadesse con le altre quotidiane vicende.
Nelle favole di Ornella, a quel punto, entrò stabilmente la sua storia d’amore con Giulio.
* * *
Decisero di sposarsi e la prima persona cui lo dissero fu il padre di Ornella, con il quale anche Giulio aveva stabilito, via palpebra, una relazione attiva.
Al matrimonio, certo, non era possibile farlo partecipare. Però sarebbero andati da lui appena finita la cerimonia, prima del rinfresco.
* * *
Il giorno del matrimonio, Ornella partì dalla camera del padre, lasciandogli sul petto, dalla parte del cuore, un fiore del suo bouquet da sposa.
Durante la cerimonia, papà Maurizio non chiuse praticamente mai le palpebre. Poi il telefono non squillò e la signora che stava con lui gli avvicinò la cornetta all’orecchio.
“Papà, mi sono sposata, sono felice!”.
Il padre chiuse gli occhi e li tenne così per un tempo che sembrava non finire mai.
Una gioia prolungata.
* * *
Tornati dal viaggio di nozze, Ornella e Giulio andarono a vivere in casa con lui.
Papà Maurizio sempre nella stessa condizione, accudito dalle favole e dalle premure di Ornella, ora con l’aiuto anche di Giulio.
Una sera di giugno, però, Ornella tornò a casa e trovò il padre con le palpebre abbassate. Respirava, questo l’aveva verificato anche la signora che se ne occupava.
“Papà, che fai? Sei stanco?”.
Il padre alzò le palpebre: gli occhi, nella fissità del tutto, sembrarono particolarmente espressivi. Rimase a lungo così, con gli occhi aperti. Molto più a lungo del solito.
Poi li chiuse, lentamente.
* * *
La prima sera in cui tornò a casa e si affacciò nella stanza vuota, Ornella si rese conto che in tutto quel tempo era stata lei a sentirsi accudita, coccolata, seguita.
Quanto le mancava.
Se lo immaginò, lì, davanti a lei, stranamente non nella gagliardia di quando era stata bambina, ma nella posizione supina, immobile, sul letto che ancora non era stato ritirato dalla ditta del noleggio di attrezzature sanitarie.
Decise di fare una prova e chiese a stessa: “Ti racconto una storia?”.
Le venne istintivo chiudere gli occhi.
Al buio delle sue palpebre, le scappò una lacrima, poi un sorriso.