La carta adriatica che l'Italia può giocare nella partita (infrastrutturale) sulla via della Seta


Le infrastrutture, prima che un fatto industriale e di cavi di acciaio da posare, riguardano cultura e visione



Nelle aziende private la strategia commerciale e politica viene prima di bilanci e tagli di nastro. In Europa (e in Italia) esattamente all'opposto.

Fa piacere che i grandi media generalisti stiano approfondendo quali saranno i riverberi italiani della Via della Seta, il mega progetto di sviluppo cinese che investirà come un tifone anche il versante euromediterraneo. Ciò che lascia perplessi è il rispetto dei tempi, tanto di analisi quanto di azione.

Da cinque anni molti analisti hanno già sottolineato come la presenza di Pechino nel Mediterraneo, con la privatizzazione da parte di Cosco Cina dell'hub ellenico del Pireo (ultimata lo scorso anno ma iniziata un lustro fa con percentuali più basse) sia stata il primo gradino di una scala mobile dalle conseguenze rilevantissime (e non solo per il comparto marittimo): dimostra ancora una volta che una precisa scelta politica (l'espansione infrastrutturale asiatica nel vecchio continente) è stata da loro implementata con anni di osservazioni, passi progressivi e contingenze di natura finanziaria.

Quelle migliaia di containers che, anziché a Rotterdeam sbarcheranno in Grecia, come osservato più volte nel recente passato da molte testate autorevoli, avranno necessità di essere ricollocate essenzialmente su due tronconi ideali: sulla dorsale balcanica, dove esiste già un progetto legato ad una sorta di nuova ferrovia transiberiana che si irradi dalla Grecia (dove Ferrovie dello Stato hanno da poco privatizzato quelle elleniche) lungo quella che un tempo era la grande Jugoslavia, con ramificazioni verso i Paesi cosiddetti Visegrad; e sul corridoio adriatico, per giungere sino al “bivio” rappresentato dai porti di Trieste e Genova che saranno toccati (anche se marginalmente) proprio dalla via della Seta e così sfociare nel centro e nel nord Europa.

Non c'è che dire, Pechino ha pianificato con cura mosse e scelte, legittimamente. Sono gli altri ad essere giunti in ritardo sulla scena del delitto, così come troppo spesso l'Ue ha fatto per svariati dossier delicati, come migranti, Isis, welfare, globalizzazione e concorrenza sleale soprattutto per il made in Italy.

Ciò che importa sedimentare, adesso che il quadro complessivo è chiaro a tutti, è che in verità una decina di anni fa l'Adriatico era stato interessato da un sommovimento di largo respiro, con il Corridoio 8, poi finito nel dimenticatorio dell'euroscantinato. L'idea cioè di anticipare i tempi, connettendo l'Europa e quindi l'Italia a quel pezzetto di Ue che si sta rivelando davvero pregnante per le nuove dinamiche legate alla geopolitica: il versante balcanico.

L'Italia è, di fatto, una sorta di molo naturale piazzato in quel grande lago salato che prende il nome di Mediterraneo, con due punte ideali (Gioia Tauro e Taranto) che per una serie di ragioni di merito (infiltrazioni criminali e pasticcio sull'Ilva) non possono assumere lo status di hub euroitaliano nel nord Mediterraneo. Dove guardare dunque?

Fisiologicamente all'Adriatico, a quel corridoio che la natura ha regalato all'Italia, perché location unica e imprescindibile per passare dall'nordafrica alla Germania con una rete di alta velocità, di merci in treno, di sistema che diventa armonico, lasciando da parte l'iperbole del ponte sullo Stretto.

Le infrastrutture prima che un fatto industriale e di cavi di acciaio da posare, attengono alla cultura e alla mentalità. L'auspicio è che la campagna elettorale italiana non sotterri questa grande tematica sotto i colpi di santini e slogan.

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