Di questi tempi si tende a trattare problemi complessi a suon di battute e twittate.
Con un post di dieci righe buttato lì senza pensarci quella manciata di secondi che può fare la differenza (tra una stupidaggine ed una frase meditata), si pensa di potere fornire ricette risolutive; anche a questioni internazionali, a conflitti culturali, a diversità di tradizioni e fedi religiose.
Al contrario, la regista palestinese Anne-Marie Jacir (che ha vissuto per molto tempo all’estero ed oggi risiede ad Haifa, in Israele) ci fa vivere quasi cento minuti di riflessione ed analisi, attraverso i dialoghi e le espressioni dei protagonisti, sui temi della convivenza forzata di due popoli in atavica contrapposizione (gli israeliani e i palestinesi) e dello scontro generazionale tra chi è legato alla tradizione e chi, anche grazie ai viaggi ed al confronto con il mondo occidentale, si sente cosmopolita e libero da tutte quelle regole secolari, ormai percepite come insopportabili.
L’occasione del racconto, sempre ironico e brillante, è l’imminente matrimonio di Amal, la sorella di Shadi, tornato apposta da Roma in Cisgiordania per partecipare, insieme al padre, al rito della consegna casa per casa degli inviti alla festa (il rito chiamato appunto Wajib). Il film è tutto qui, puntato sul giovane architetto palestinese che vive e lavora in Europa ed il genitore, uno stimato ed amato professore di scuola, ligio ai dettami della sua cultura. Girano per Nazareth con una vecchia Volvo malconcia, battibeccano in continuazione su tutto, dal fumo al rapporto con gli israeliani; sembra impossibile, man mano che i discorsi si fanno più profondi, che tra loro possano ritrovare un dialogo armonioso.
Shadi è di idee progressiste, nella capitale italiana vive con una ragazza appartenente ad una famiglia legata all’OLP. Si è allontanato non solo fisicamente dalla sua famiglia di origine; il padre è un uomo mite e buono ma non mette in discussione la religione, i riti e le convinzioni del suo popolo.
Accetta con bonomia certe “prepotenze” dei “coinquilini” dei territori, non riesce a comprendere il senso di ribellione del figlio. Il mondo a Nazareth è chiuso e fermo, ci si deve adattare alla sporcizia ed al malgoverno, alle case malconce, alle bruttezze estetiche dei palazzi scrostati e ricoperti di teli e reti di plastica (un pugno nell’occhio per l’architetto Shadi, che forse viveva in una Roma diversa e libera dalla spazzatura…). L’occhio della regista è benevolmente critico di fronte alle famiglie tradizionali visitate dai due, alle domande pressanti a Shadi (sei sposato? Hai figli? Quando torni a vivere qui?) che tradiscono conformismo e assenza di evoluzione culturale. Alla fine, dopo tante parole e anche scambi accesi di idee, portiere sbattute e apparenti chiusure definitive, padre e figlio, simboli di opposte visioni di vita, trovano un punto di incontro, facilitati dall’affetto reciproco e dal sotteso desiderio di rendere felice Amal con un matrimonio celebrato in armonia, originalmente in una stagione invernale (a Nazareth è Natale e in molte case ci sono gli abeti addobbati!). A riprova che parlarsi serve, che non bisogna erigere muri se si è diversi: ma non arrendersi e continuare a cercare di capirsi. Una posizione coraggiosa per un film palestinese, per di più candidato agli Oscar 2018 come miglior lungometraggio dal Paese mediorientale. 3 ciak
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