Trentuno anni d'Italia: da Mani pulite alla crisi della democrazia


Riflettere sull'importanza di Mani pulite è un atto doveroso: non solo per chi non c'era. Quella che ha innescato è una piena crisi democratica del nostro Paese


di Niccolò Monti
Categoria: Editoriale
17/02/2023 alle ore 14:16



L’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, beccato in flagranza di concussione il 17 febbraio 1992, rappresenta il casus belli di una “guerra fredda” tra politica e magistratura in atto ancora oggi. Proprio per questo, riflettere sull’importanza che Mani pulite ha avuto e ha ancora nella storia italiana degli ultimi trentuno anni è doveroso e necessario.

Se trentuno anni fa si venne a scoprire che le più importanti imprese del paese finanziavano i principali partiti della maggioranza, condizionando determinate decisioni della pubblica amministrazione, di enti o di società a partecipazione pubblica, favorevoli alle imprese, nell'ultimo anno si è parlato molto dell’inchiesta su un caso uguale e contrario a quello di allora, con il già presidente dell’Anm e membro del Csm, Luca Palamara, beccato a spartirsi le nomine delle Procure di Roma e di Firenze con i deputati renziani Luca Lotti e Cosimo Ferri e cinque togati del Csm.

Innanzitutto bisogna ricordare che Mani pulite ebbe effetti dirompenti sul panorama politico, con la scomparsa dei cinque principali partiti in Parlamento. Se da una parte l’opinione pubblica vedeva i magistrati come l’unica arma etica e autonoma in grado di spazzare via la corruzione dilagante nel sistema politico italiano, dall’altra parte quello della magistratura veniva percepito dalla politica come uno ‘strapotere‘ al quale reagire duramente con inchieste disposte dal ministro di Grazia e Giustizia, procedimenti disciplinari, diffamazioni e procedimenti penali a carico degli inquirenti. Ed è proprio in questo che risiede l’importanza di Mani pulite nella nostra storia e soprattutto nel nostro presente.

La crisi del sistema politico

Analizzando i fatti degli ultimi trentuno anni e i problemi che colpiscono la magistratura è evidente come la politica non abbia mai tollerato la presenza di un ‘contropotere’ in grado di sorvegliare il suo operato. Mani pulite ha smascherato proprio questo: l’incapacità del sistema politico italiano di accettare i limiti che la Costituzione e il sistema democratico impongono al suo potere. Tutto questo ha dato il via a un meccanismo di reazione che si è innescato nel momento di massima crisi del sistema politico italiano e sta raggiungendo il suo apice in un momento in cui si parla di crisi della magistratura, ma che in realtà riguarda tutte le istituzioni democratiche. 

A una evidente crisi del sistema giudiziario, infatti, si accompagna l’ennesima crisi del sistema politico che, vista la bassa affluenza alle urne nelle ultime elezioni, non gode di una salute ottimale. Evidentemente la costante propaganda contro la magistratura di questi anni non ha convinto quegli italiani che non dimenticano i ventotto magistrati uccisi per il loro impegno nel difendere la democrazia: da Giovanni Falcone a Francesca Morvillo, da Paolo Borsellino ad Antonino Saetta. Per non parlare dei tanti che ancora oggi vivono sotto scorta, come Nino Di Matteo e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

Evidentemente c’è qualcuno, come il giornalista Sergio Rizzo, che si chiede come mai quando si parla di indipendenza della magistratura non c’è politico che parli dei consiglieri di Stato, ovvero i magistrati più vicini alla politica, considerati gli uomini più potenti del Paese grazie alla possibilità di assumere incarichi diversi da quelli strettamente giudiziari. Evidentemente c’è chi trova legittimo farsi la seguente domanda: non saranno stati i politici a dare vita a un sistema giudiziario sempre più politicizzato con lo scopo di delegittimare il lavoro dei tanti magistrati che non si sono mai piegati al loro potere? 

La crisi della magistratura

La crisi della magistratura è stata indotta da un costante e bilaterale “stupro” da parte della politica che ha assecondato e sfruttato questo meccanismo malato. È sufficiente ricordarsi di come quest’ultima negli anni si sia spinta alla ricerca dell’impunità, con un primo tentativo messo in campo dall’allora premier, ed ex presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato che tentò senza riuscirci di depenalizzare il reato di finanziamento illecito ai partiti. O a quello effettuato dal primo governo Berlusconi con il “decreto Biondi“, favorendo gli arresti domiciliari per la maggior parte dei crimini di corruzione nella fase cautelare.

Negli anni successivi questi tentativi sono stati portati avanti dai governi di entrambi gli schieramenti. Dal secondo governo Berlusconi che approvò una serie di riforme finalizzate all’ottenimento di risultati favorevoli agli imputati nei procedimenti penali a carico del premier o di soggetti a lui collegati – come la “ex Cirielli“, con cui si riformò il computo dei termini  di prescrizione dimezzandoli. Ai governi di centro sinistra che con la riforma dell’art. 513 del codice di procedura penale e poi con la riforma dell’art. 111 della Costituzione resero inutilizzabili prove a carico di corrotti che vennero così assolti. Una serie di leggi che, a dieci anni da Mani pulite, allarmò così tanto la comunità internazionale da inviare un relatore speciale per indagare sull’indipendenza dei giudici italiani a fronte degli attacchi del potere politico.

Durante la seconda Repubblica, dunque, si manifestarono in maniera ancora più forte le cattive intenzioni della politica nei confronti della magistratura. La “riforma Castelli-Mastella” del 2006 rappresentò il tentativo più eclatante di smantellamento del sistema giudiziario italiano. Oltre al citatissimo problema delle logiche di appartenenza correntizia, alimentate e incentivate dalla politica stessa per circondarsi di magistrati della corrente affine al proprio schieramento, i problemi che affliggono la magistratura oggi sono diversi e tutti dovuti a questa mala gestione del sistema.

Disegnando per le procure della Repubblica una struttura piramidale e verticistica, la “riforma Castelli-Mastella”, infatti, diede vita a un sistema di gerarchizzazione rigidissima che favorì la politica nel controllare e indirizzare l’esercizio delle indagini e delle azioni penali, stabilendo che titolare dell’esercizio dell’azione penale fosse solo il procuratore.

Per non parlare del carrierismo, alla base del caso Palamara, che ha fatto esplodere. Accrescendo in maniera esponenziale il numero di procuratori aggiunti, di presidenti di sezione del tribunale, di presidenti di sezione della corte d’appello, rispetto alle reali esigenze di organizzazione e coordinamento dell’attività degli uffici, alimentò l’ambizione dei magistrati a ricoprire incarichi direttivi. Fenomeno intensificato poi dal Testo unico sulla dirigenza giudiziaria del 2015, che ha attribuito troppa importanza alle pregresse esperienze direttive o semidirettive.

Purtroppo però questa resa dei conti continua ancora oggi, come dimostrano le parole del capogruppo alla Camera di Forza Italia, Alessandro Cattaneo, che, due giorni fa, dopo la sentenza di assoluzione per Silvio Berlusconi nel processo Ruby Ter, ha chiesto "la calendarizzazione di quella commissione di inchiesta sull’utilizzo politico della magistratura, che vuole fare chiarezza su 25 anni di lotte giudiziarie, che nulla avevano a che vedere col merito ma che sono state usate come scontro politico, ma che sono state usate come scontro politico. Mai più persecuzioni giudiziarie".

La crisi del ‘quarto potere’

Come mai gran parte del giornalismo non sembra essere consapevole di tutto ciò? La risposta la danno i tentativi revisionisti su Mani pulite di Piero Sansonetti, direttore del Riformista, che ci “informa” di come non fu Craxi a sottrarsi alla giustizia bensì il pool a costringerlo ad andarsene dal paese, e di Paolo Guzzanti, editorialista del Giornale – spesso più comico dei tre figli – che rievoca una presunta telefonata in cui Craxi lo avvisò di stare attento a intervistare i componenti del pool era “gente che ammazza”: perché anche il ‘quarto potere’, che ad ogni occasione non manca di mostrare i sintomi della sua schizofrenia, è in una costante crisi identitaria.

Troppo spesso i giornalisti italiani si sono fatti eco di propagande politiche di delegittimazione contro la magistratura, quella sana in particolare. Basti pensare alla campagna di stampa nei confronti dei magistrati di Catanzaro, “accusati dal Riformista di agire per fini personali, di sottoporre a tortura persone innocenti”. 

Un fatto che non stupisce chi si ricorda della campagna di disinformazione e delegittimazione che logorava il lavoro di Falcone e Borsellino, crocifissi da vivi e sfruttati da morti per processare i magistrati di oggi. Come ha ricordato Roberto Saviano sul palco di Sanremo, questi venivano accusati di essere “esibizionisti in cerca di popolarità” e di “spettacolarizzare il lavoro del giudice antimafia” fino al punto di mettersi da soli una borsa con 58 cartucce di esplosivo sotto casa, come si raccontò in riferimento all’attentato dell’Addaura.

Sono molti e troppo frequenti i casi in cui il giornalismo italiano, invece di stimolare il pensiero e controllare il potere, si è fatto e continua a farsi mezzo di becere propagande che riducono il dibattito a generalizzazioni parziali sempre alla mercé del potente di turno. Ed è anche per questo che il sistema mediatico del nostro Paese, per riacquistare credibilità agli occhi dell’opinione pubblica, dovrebbe aprire una nuova fase di riflessione sul proprio ruolo nella società e sul proprio futuro.

Quindi basta parlare di crisi della magistratura! Quella che stiamo vivendo è qualcosa di molto più grande: è una piena crisi democratica del nostro paese. Una crisi che non si risolverà facilmente in quanto in mano a una magistratura o delegittimata, quando indipendente, o corrotta, a un giornalismo piegato agli interessi di editori impuri, e a una classe politica isterica e priva di visione che va dietro a un’unità nazionale che non c’è.

L’unica unità di cui abbiamo bisogno in questo momento è quella di tutte le forze sane del Paese per ricostruire quella democrazia forte, che non abbiamo mai avuto. Perché, ricordiamoci, la democrazia non sta nella vetta da raggiungere, ma nella montagna da scalare, ogni giorno.