Dopo le regionali d'Abruzzo: resa dei conti nel Pd


Le accuse di Di Marco contro Di Sabatino


di Lilli Mandara
Categoria: Maperò
19/02/2019 alle ore 09:13



L’attacco a gamba tesa lo piazza Antonio Di Marco, l’ex presidente della Provincia di Pescara che si è ritagliato un ruolo da protagonista alle ultime elezioni regionali senza essere candidato ma facendolo credere (manifesti, conferenze stampa per annunciare chi avrebbe appoggiato e via di questo passo, in un delirio narcisistico degno di miglior causa): se la prende col segretario regionale Renzo Di Sabatino, colpevole di averlo escluso dalle liste, lo accusa di aver costruito a tavolino la sconfitta del Pd, perché con lui e gli altri esclusi (ma soprattutto lui), il partito avrebbe vinto le elezioni. 

Insomma, parole in libertà ieri alla prima direzione regionale del partito democratico dopo la sconfitta elettorale del 10 febbraio scorso. All’ordine del giorno l’analisi del voto, la ricostruzione del partito, la riflessione, e invece la sede di via Lungaterno si trasforma in uno sfogatoio di frustrazioni personali.

Di Marco arriva a prendersela pure con la capolista della lista Legnini a Pescara, la preside dell’Istituto Alberghiero Alessandra Di Pietro, candidata grazie alla visibilità che lui le aveva fornito (tra l’altro vero). E detto per inciso, la Di Pietro (che doveva essere candidata con D’Alfonso già alle regionali del 2014 e poi alle politiche del 2018), si era segnalata per i party organizzati alla Provincia anche in occasione del compleanno di Di Marco e per il comizio di Renzi dentro la scuola. Insomma, l’ex presidente ce ne ha per tutti, e arriva a chiedere la testa del segretario regionale.

Torna in ballo Rigopiano, inevitabilmente, la causa dell’esclusione di Di Marco che è indagato nell’inchiesta: a latere, nei corridoi, l’ex governatore Luciano D’Alfonso che durante tutta la campagna elettorale è rimasto defilato e in rigoroso silenzio, ad eccezione di qualche post al veleno e qualche altro in cui segnalava la sua agenda da senatore o rivendicava la bontà del suo governo, ha detto che sicuramente Di Marco sarà assolto. Ma un’altra accusa viene fatta al segretario: quella di aver consentito che molti candidati si disperdessero nelle liste civiche, indebolendo il Pd.

Di Sabatino parla solo pochi minuti, per rispedire al mittente le accuse di Di Marco: eravate tutti qui, dice, quando avete pregato in ginocchio che Legnini si candidasse, e una volta che Legnini si è candidato è chiaro che iogurt li abbia dato carta bianca (della serie: non potevamo imporre le nostre candidature né impedire la creazione delle civiche).

Parla anche Camillo D’Alessandro, che scarica buona parte della responsabilità della sconfitta ai tre dissidenti Donato Di Matteo, Andrea Gerosolimo e Mario Olivieri, due dei quali candidati col centrodestra e Di Matteo alla fine candidato col centrosinistra “solo perché c’era Legnini”. Con quei tre fuori dalla maggioranza è stato impossibile approvare riforme importanti, prima fra tutte quella elettorale, dice il parlamentare Pd.

Poi è stata la volta di D’Alfonso, che ha tenuto banco fino alla fine di una riunione che non è servita a granché se non a una resa dei conti tutta interna. Ha puntato il dito contro il suo vice presidente, Giovanni Lolli. Ha una colpa Lolli, urla Dalfy al microfono, quella di aver scritto una lettera per affossare La City, il complesso che la Regione avrebbe voluto acquistare per farne la sede dei propri uffici, una lettera secondo l’ex governatore che potrebbe fornire un ulteriore assist ai magistrati, che lui evoca sempre con timore.

Lolli avrebbe dovuto evitare di scriverla, visto che si era manifestata anche la necessità di trasferire gli uffici di viale Bovio per problemi di staticità.

Poi l’analisi del voto: l’ex governatore riconosce che Giovanni Legnini è stato comunque il candidato migliore che il centrosinistra potesse avere ma si è perso troppo tempo, da agosto a dicembre: quel tempo andava speso per trovare candidati migliori da schierare in suo sostegno. No, non è vero che lui ha tirato fino ad agosto arrivando a dimettersi con cinque mesi di ritardo solo per piacer suo: Dalfy ha tardato a dimettersi, racconta, perché così ha voluto il partito che voleva a tutti i costi arrivare alla scadenza del mandato di Legnini, nella speranza che raccogliesse l’invito a candidarsi.

Alla fine, l’investitura: per le prossime elezioni comunali, dice D’Alfonso davanti a Marco Alessandrini seduto in prima fila,

Carlo Costantini è il miglior candidato possibile”.

L’ex governatore ed ex sindaco di Pescara dà la sua benedizione al promotore del referendum per la grande Pescara (oltre che suo grande nemico), segando le gambe al primo cittadino in carica che ha annunciato qualche giorno fa di volersi ricandidare. E’ un’arma a doppio taglio, questa, un’investitura che non si sa quanto gioverà a Costantini, che aveva annunciato discontinuità con l’attuale governo in carica al Comune di Pescara.

 

ps: Finisce così la direzione Pd, e chi ci capisce è bravo.

 

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