Edilizia residenziale pubblica, il 40% degli edifici nelle zone più a rischio non è antisismico


Dalla ricerca condotta dalla Federazione emerge che su 2760 edifici di proprietà esclusiva delle aziende casa, localizzati in zona sismica 1, 1.100 necessitano di interventi di miglioramento urgenti



Categoria: ABRUZZO
25/07/2017 alle ore 14:52



In Italia il 40 per cento degli edifici di edilizia residenziale pubblica, localizzati in zona sismica 1 (la più pericolosa), sono stati costruiti prima del 1980 e quindi non rispondono agli attuali requisiti antisismici e necessitano di interventi di miglioramento/adeguamento di particolare urgenza. A dirlo sono i dati contenuti nella ricerca “Patrimonio edilizio e rischio sismico". Presentata da Federcasa, che a partire dal 2015 ha avvitato uno studio in collaborazione con l’Associazione Isi (Ingegneria Sismica Italiana), per valutare la vulnerabilità sismica delle case popolari, gestite dalle aziende casa, nelle zone a maggior rischio sismico (1, 2 e 3) e calcolare una stima del costo per incrementare la sicurezza dell’intero patrimonio a rischio. Ne emerge un quadro piuttosto serio, dove sul totale di 2760 edifici, gestiti dalle aziende casa, presenti nella zona sismica 1 (la più a rischio), 1.100 necessitano di interventi di miglioramento urgenti.
Per adeguare tale patrimonio e garantire i migliori standard di sicurezza, servirebbero dai 360 ai 400 milioni di euro. Il costo, tuttavia, potrebbe diminuire se si decidesse di realizzare una serie d’interventi e modifiche tali da consentire di migliorare la capacità di resistenza alle azioni sismiche, compresa entro i valori minimi e massimi (60per cento ed 80per cento) di quelli previsti per le nuove costruzioni. Per raggiungere l’80per cento di sicurezza occorrerebbero investimenti compresi tra i 290 e i 320 milioni, mentre per arrivare almeno al 60per cento, il fabbisogno finanziario è stimato tra i 216 ed i 240 milioni di euro. Lo studio condotto da Federcasa ed Isi ha permesso di raccogliere informazioni su un campione di 190.357 alloggi, per un totale di 20.448 edifici, che rappresentano il 30 per cento del totale gestito nelle zone sismiche di riferimento (1, 2 e 3).
Sono state analizzate importanti informazioni, che influenzano fortemente la vulnerabilità sismica degli edifici considerati, ovvero le caratteristiche strutturali, geometriche e costruttive, la loro esposizione, nonché la pericolosità del sito di costruzione. Informazioni, queste, che hanno consentito di elaborare una provvisionale stima del rischio sismico dell’intero patrimonio, nonché del costo di miglioramento/adeguamento sismico. L’8,4 per cento degli edifici si trova nella zona sismica 1, il 38,1per cento nella 2 ed il restante 53,5 per cento nella zona 3. Il 10,2 per cento degli edifici rilevati risalgono a prima del 1940, mentre il 75,7 per cento è stato realizzato dal 1941 al 1990. Gli edifici realizzati successivamente (dal 1991 al 2010) rappresentano l’11 per cento del campione considerato. Una bassissima percentuale (3.9 per cento) ha subìto interventi di carattere strutturale, indipendentemente dall’anno. Per quanto riguarda la tecnologia costruttiva, il 44,6 per cento è stato realizzato in cemento armato, mentre il 52 per cento in muratura.
Ed è proprio quest’ultima categoria di fabbricati, realizzati prima del 1980, che è maggiormente esposta agli effetti del sisma. Attualmente le risorse statali destinate al recupero e alla razionalizzazione del patrimonio residenziale pubblico sono quelle previste dal “Programma di recupero e razionalizzazione degli immobili e  degli alloggi di edilizia residenziale pubblica” (art. 4 del DL 47/2014). Le Aziende Casa sono escluse dall’accesso alle detrazioni fiscali per gli interventi di adeguamento e miglioramento sismico. Una limitazione che, se fosse eliminata, consentirebbe di avviare prontamente una prima tranche del piano di intervento sugli edifici a maggior rischio sismico, che realisticamente potrebbe interessare circa 2.000 alloggi, per un totale di investimenti pari a 75 milioni di euro.
In tale ipotesi, il mancato gettito fiscale sarebbe comunque in parte compensato da entrate fiscali dirette.