Non si fermano le purghe di Erdogan, ma Bruxelles concede un altro "fido"


Seguono le persecuzioni stimolate dalle tesi del poeta islamico Necip Fazıl Kısakürek, un punto di riferimento per una generazione di élite islamiste turche


di Francesco De Palo
Categoria: Francesco De Palo
12/07/2018 alle ore 17:56

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La motivazione ufficiale è la fine dello stato di emergenza post golpe farlocco del 2016. In realtà i 18mila dipendenti pubblici turchi licenziati dal Presidente turco Tayyip Erdogan seguono il solco politico scavato dal sultano, che ha già diretto i propri strali contro giornalisti, magistrati, sportivi, omosessuali, militari, dissidenti politici e social network. 

Non si fermano le purghe di Erdogan, dopo i fatti di Gezi Park: i 18mila, di cui il 50% agenti di polizia, in sostanza sono il prologo dei fatti del luglio di due anni fa, accusati di gulenismo e quindi licenziati. Nel decreto sono compresi anche 199 accademici delle università di tutto il paese, oltre 5.000 membri delle forze armate, dodici sindacati, tre giornali e una rete televisiva che sono stati chiusi.

Dal 2016 ad oggi in Turchia sono stati sollevati dal proprio incarico professionale almeno 160.000 dipendenti pubblici e oltre 50.000 attualmente in carcere sono stati formalmente accusati e tenuti in regime di detenzione preventiva ancor prima che si celebrasse il processo.

Si tratta del primo provvedimento seguito alla vittoria di Erdogan nelle elezioni presidenziali dello scorso mese e arriva prima che lui stesso imbulloni il suo potere al giuramento ufficiale (lunedì scorso), in parallelo all'entrata in vigore del nuovo sistema presidenziale che gli conferisce poteri praticamente illimitati.

Ufficialmente il governo fa schermo, sostenendo che le nuove misure siano necessarie per combattere le minacce alla sicurezza nazionale, ma nei fatti rientrano nella strategia neo ottomana che poggia sulle tesi di Necmettin Erbakan, il predecessore di Erdoğan, e del poeta islamico Necip Fazıl Kısakürek, un punto di riferimento per una generazione di élite islamiste in Turchia.

A questo “retroterra” si devono anche le non più velate minacce che nel paese stanno muovendo contro la comunità ebraica, con frasi inquietanti trovate in una scuola di Istanbul come “un ebreo significa ‘bugiardo”, “un ebreo è un uomo che pugnala le persone alle spalle”, “un ebreo è un vigliacco che uccide i deboli”.

Episodi che hanno suscitato la protesta ufficiale dell'Organizzazione Sionista Mondiale che ha lancianto l'allarme contro le reiterate manifestazioni contro lo Stato di Israele e il popolo ebraico “da parte di funzionari turchi, guidati dal Presidente della Turchia”, come detto dal vicepresidente Yaakov Hagoel, anche a capo del dipartimento per la lotta contro l’antisemitismo.

Nel mezzo, mentre in Italia ci si indigna con le magliette rosse, spicca il silenzio di Bruxelles che adesso pensa di concedere altri fondi (dopo i 4 mld di euro dello scorso anno) ad Ankara per tenere in loco quei migranti che dalla Libia non potranno più passare (dopo la visita del vicepresidente Matig al Viminale e del ministro Moavero Milanesi a Tripoli) e fare da tappo verso l'Europa.

Un passaggio, quello sui migranti, che si lega a doppia mandata all'altro fronte caldo nel quadrante mediorientale: il rischio che l'economia erdoganiana possa avviarsi verso quella lenta combustione prodotta da alcune decisioni del governo altamente a rischio, che gli sono valse il downgrade di Standard & Poor.

Di contro il Presidente, che minaccia ancora Cipro per il gas nel Mediterraneo orientale, ha appena incassato altro sostegno dal gruppo Islamic Development Bank (IsDB) che promette una partnership quadriennale con la Turchia, dopo aver già immesso 11 miliardi nel mercato turco.

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