Né hard, né soft: la Brexit è stata votata e (ad oggi) ignorata


Quanto conta il voto popolare nell'Europa che scricchiola e si avvita, oggi giorno di più, sulle proprie contraddizioni?


di Francesco De Palo
Categoria: Francesco De Palo
14/06/2017 alle ore 15:26

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Viva la democrazia, abbasso la democrazia. “Volete restare nell'Unione Europea o volete lasciare l'Unione Europea?”. Recitava così il quesito referendario che, poco meno di un anno fa, venne sottoposto ai cittadini britannici e che, un dodecamino dopo, resta senza conseguenze se non l'avvicendamento a Downing Street. Il referendum, consultivo e non vincolante, si concluse con un voto favorevole all'uscita dalla Ue con il 51,9%, contro il 48,1%. Oltre al solco ancora più evidente creatosi tra le nazioni del Regno Unito: Inghilterra e Galles per la Brexit, Scozia e Irlanda del Nord contrari.

Il fatto grave è che, a causa dell'instabilità tanto temuta da mercati e Ue, e degli allarmi lanciati in più direzioni dalla City, di Brexit non si vede l'ombra concreta. Negli scorsi undici mesi è stata la politica a restare sulla scena, come se quel pronunciamento popolare fosse stato un inciampo, o un affare secondario, o, cosa ancor più grave, un fatto da tenere in secondo piano.

Al netto delle difficoltà oggettive conseguenti a quel voto e delle idee che le due fazioni legittimamente hanno, c'è un dato sottolineato in rosso sul quale va aperta una riflessione continentale: quanto conta il voto popolare nell'Europa che scricchiola e si avvita, oggi giorno di più, sulle proprie contraddizioni? Non tanto, stando allo scenario londinese.

Morbida? Dura? Stemperata? Si sprecano sui tabloid inglesi gli epiteti per la Brexit. L'ultimo, in ordine di tempo è stato il Daily Telegraph, secondo cui la Gran Bretagna potrebbe decidere per un ircocervo: né fuori dall'Ue, né dentro ma un compromesso che da un lato lasci Londra nel mercato comune compresa l'unione doganale, dall'altro scimmiottando modelli come Turchia e Svizzera che presentano caratteristiche, sociali e geopolitiche diametralmente opposte. E'il fallimento della politica inglese che, dopo l'assurda piroetta di David Cameron, deve fare i conti con la strategia dilettantistica di Theresa May che ha portato il paese alle urne certa di una vittoria schiacciante. E che, ora, si trova a dover gestire non solo la resurrezione dei laburisti di Corbyn, ma soprattutto i mille sopraccigli alzati dei Tories pronti a impallinarla, senza contare il voto dei più giovani che è stato contro l'attuale premier.

Lecito chiedersi: perché, con tali sciagurate premesse, l'Ue dovrebbe avallare uno sconto così macroscopico a Londra? Se il voto popolare ha ancora un peso specifico determinato (e non frutto di assunti variabili) perché non applicare, subito e senza scorciatoie, le conseguenze di quel pronunciamento? L'elemento economico è lì che guarda i negoziatori: a sud della Manica il capo negoziatore dell'Ue, Michel Barnier e il presidente dell'Europarlamento, Antonio Tajani, sono pronti a quando i Ventisette dovranno materialmente scrivere un futuro accordo di partenariato con i britannici. Ma Londra, dicono le malelingue, ha storto il naso ai conti di Bruxelles che parlavano di 60 miliardi di euro per uscire, come confermato da Juncker, mentre Westminster avanza una «stima prudente» di soli 20 miliardi.

Eccoli lì, i trenta denari, ancora una volta a scavalcare popoli, voti, analisi e scenari. Certo, per pesare gli attuali giocatori seduto al tavolo verde della Brexit, non va dimenticato l'assunto di Winston Churchill secondo cui “l’argomento migliore contro la democrazia è una conversazione di soli cinque minuti con l’elettore medio”.

Ma resta l'amaro in bocca per chi, da paladino dei diritti e di quella grande conquista che prende il nome di democrazia, ha svilito proprio l'applicazione più pratica del demos e del kratos: il voto.

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