I trabocchi: cattedrali del mare sulla costa teatina


Sono il prodotto di un'architettura spontanea, di un armonioso e delicato connubio tra uomo, mare e terra sorto addirittura in epoca fenicia


di Valentina Coccia
Categoria: Incolta
18/12/2017 alle ore 19:13

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Eterei equilibristi sospesi sul mare, i trabocchi costituiscono il tratto distintivo della costa abruzzese che da Ortona si estende sino a Vasto, con particolare sviluppo tra Fossacesia e San Vito Chietino. Il termine è un’italianizzazione del dialettale “travocche”, probabilmente derivante a sua volta dal latino “trabs” (legno, albero, casa); è verosimile che lo stesso vocabolo vada a sovrapporsi al concetto di “trabocchetto” teso al pesce mediante questo strumento, o alla tecnica di conficcare i pali tra gli scogli oppure, ancora, che discenda dal “trabiccolo” usato nei frantoi per la spremitura delle olive, assai affine all'argano che è situato sul trabocco.

I trabocchi sono il prodotto di un’architettura spontanea, di un armonioso e delicato connubio tra uomo, mare e terra che, secondo alcuni storici, sarebbe sorto addirittura in epoca fenicia. Il più antico documento che cita la presenza dei trabocchi è comunque ad oggi un manoscritto conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia, il “ Vita Sanctissimi Petri Celestini”, nel quale parlando della permanenza di Pietro da Morrone nel Monastero di San Giovanni in Venere (1240-1243), si narra che lo stesso uscisse spesso dall’Abbazia di Fossacesia e, dal colle “Belvedere”, ammirasse il mare sottostante “punteggiato di trabocchi”; testimonianza, questa, che porterebbe a dedurre che nel 1240, l’anno di inizio del corso di studi frequentato da Pietro da Morrone, i trabocchi già esistessero.

Alcuni storici preferiscono tuttavia postdatarne la nascita e lo sviluppo alla fine del XVIII secolo, quando la necessità di garantire il pescato anche in condizioni meteomarine avverse spinse alcune famiglie sefardite stabilitesi in zona a studiare una soluzione che consentisse l’attività senza inoltrarsi in mare.

L’aspetto arcaico della struttura cela una complessa macchina ingegneristica, frutto di un sapiente, preciso intreccio di funi e travi che va a costituire la caratteristica ossatura in pino d’Aleppo (un legno pressoché inesauribile, data la diffusione nella zona, modellabile e resistente alla salsedine). Uno scheletro, quello del trabocco, di una fragilità quanto mai apparente, capace invece di resiste alle sollecitazioni delle reti, alla furia del mare agitato dalle forti raffiche di Maestrale che battono il basso Adriatico, sopravvivendo alla forza distruttrice della natura attraverso un rapporto dialettico con essa.

Il trabocco abruzzese si distingue da quello gargano per alcune caratteristiche dovute alla diversità dei rispettivi litorali: il primo è solitamente ancorato ad uno sperone di roccia e prevede la sistemazione delle cosiddette “antenne” su una piattaforma estesa longitudinalmente alla linea di costa.

Quello abruzzese, proteso su un litorale basso, si estende trasversalmente rispetto al lido ed è collegato allo stesso mediante lo snello, distintivo ponticello in legno; le bilance sono numericamente inferiori rispetto a quelle presenti più a sud, hanno un solo argano e la rete è visibilmente più piccola.

I trabocchi appaiono in tutta la loro discreta, silenziosa magnificenza agli occhi del visitatore che volge lo sguardo al mare, pervaso dall’odore intenso di alghe e salsedine, come creature abbandonate ad un profondo, malinconico, solitario momento di introspezione.

“La lunga e pertinace lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran carcassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quegli ordigni. La macchina pareva vivere d’una vita propria, avere un’aria e una effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni e anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione speciali, un’impronta distinta come quella d’una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuto la loro opera crudele”: così, ne “Il trionfo della morte”, D’Annunzio descriveva il celebre Trabocco Turchino.

Oggi i trabocchi non svolgono più la loro secolare mansione di integrazione dell’economia agricola, alcuni sono stati trasformati in punti di documentazione e informazione, altri in terrazza ristorante.

Intatto, immutato, eterno ne è tuttavia il fascino. Verlaine poetava asserendo che “il mare è più bello delle cattedrali”, senza conoscere la struggente bellezza di queste strutture che, protese come sono tra terra, mare e cielo, superano tale comparazione assumendo di mare, cielo e terra tutto lo stravolgente mistero e la struggente bellezza.

I trabocchi sono cattedrali del mare dalle quali si levano odi sacre e profane, quelle dei pescatori e degli amanti, dei solitari viandanti, sono gli altari delle preghiere alla luna, delle domande gettate tra gli astri nella volta notturna, delle riflessioni a tu per tu con Dio, o con la propria misera ombra riflessa nell’incessante increspare delle onde.

Le loro travi sono come braccia protese alle acque, che nelle acque stesse infine si perdono tra disperazione, speranza e supplica. E cosa siamo in fondo anche noi, quando dinanzi al mare ci dirigiamo, se non anime smarrite in attesa di un abbraccio mai corrisposto?

 

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