Come risponde l'Ue alle mosse di Mosca, Washington, Pechino e Riad?


Forse per la prima volta il vecchio continente opresenta un minimo comun denominatore assoluto: l'incertezza che porta al caos



Mosca, come in un gioco del Risiko 3.0, ha praticamente vinto la guerra in Siria, dove Vladimir Putin sta per gestire la fase (altrettanto complessa e articolata) della pace. Washington è alle prese con il caso coreano, ma anche con quel fronte interno che rappresenta una spina nel fianco per la Casa Bianca griffata Trump.

Pechino studia come implementare la via della Seta, la mossa per fare scacco al resto del mondo contando su nuovi corridoi (Balcani) e su un hub logistico ottimale (Mediterraneo).

Riad sta avviando una rivoluzione di quelle che, nel bene o nel male, rimarranno nei libri di storia, con il progetto Vision 2030 targato Mbs, dall'acronimo del principe ereditario saudita: niente più solo petrolio, doversificazione degli investimenti e delle risorse. Insomma davvero un nuovo mondo.

E l'Europa come sta rispondendo a questi sommovimenti tellurici che interessano praticamente tutti i continenti? Al momento, e forse per la prima volta, con una voce proprio unitaria e senza eccezioni che si chiama incertezza.

Un tempo la guida merkeliana era caratterizzata da polso e abilità: oggi la Cacelliera non riesce a formare un governo dopo il diniego dei liberal-verdi pro Giamaica. Certo, ci sono sempre i socialisti della Spd che potrebbero tornare all'ovile della grossa coalizione, ma resta l'icona dei campioni della stabilità che si sgretola in quella fotografia che ritrae una Merkel incerta, a consulto dal Presidente Steinmeier. Come dire che, comunque vada a finire con Schultz, una fase si avvia al termine.

Londra continua a collezionare inciampi, come se la Premier Teresa May avesse davvero perso ogni bussola. Prima la mala gestione del post Brexit, con negoziati che non decollano e scivoloni mediatici. Poi la fronda interna dei conservatori che vorrebbero sfiduciarla, sulla base di una lettera segreta partorita dall'estroso ministro egli esteri Boris Johnson e dal ministro dell'Ambiente Michale Gove. Chiedono ufficialmente una 'hard Brexit', ma di fatto puntano a scippare la leadership all'incerta inquilina di Downing Street. Si moltiplicano gli inglesi (e gli europei) che ripiangono la Tathcher.

La Spagna oggi gigioneggia contro i catalani, ma lo stesso Rajoy sa bene che rischia un'ulteriore impasse per via di maggioranze incerte che non conducono alla stabilità: le ultime elezioni lo dimostrano, Podemos o meno. E la rabbia popolare è un fattore di cui non si può non tener conto.

L'Italia è sotto gli occhi di tutti: qualsiasi maggioranza si formerà dopo le urne del 2018 avrà nelle proprie mani la patata bollente della manovra aggiuntiva che chiede Bruxelles (per conti sempre più in rosso) e nessuno dei competitors oggi dice, nei proclami su legge elettoralel ius soli e alleanze, dove troverà i 5 miliardi necessari.

Resta la Francia di Macron e del suo partito che non c'è. Il primo slancio post voto è stato con grandi annunci e molteplici speranze: l'erede di Hollande all'Eliseo alterna promesse sociali a (inevitabili?) riforme dolorose per il ceto medio e per quello basso. Fino ad oggi giornali e opinion leaders si sono occupati più di sua moglie, così come accaduto con Trump: ma varrebbe la pena scartavetrare un po' di patina gossippara per capire davvero cosa intende fare e come.

In crisi a questo punto non è solo il socialismo europeo, ma la risposta globale del continente ad un curvone della storia che ci vedrà purtroppo solo semplici spettatori.

 

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