Quel pallone tricolore sgonfio che fa male al tifo e al pil


Non è solo una questione di schemi: altrove c'è applicazione e professionalità, da noi solo clan e politica



Non è che in Italia la colpa sia dei 60 milioni di commissari tecnici che oggi sono delusi, ma di chi non ha compreso come il nostro Paese sia drammaticamente indietro nel binomio soccer-marketing, che si cementa, innanzitutto, con una programmazione seria e condivisa.

La mancata partecipazione dell'Italia ai prossimi Mondiali di Calcio in Russia potrebbe costare almeno 100 milioni di euro, si stima, ma il nodo è essenzialmente anche al di là di quella cifra secca: riguarda un approccio per nulla professionale, dove il pallone è gestito ancora in modo amatoriale quasi che si stesse giocando su un campetto di provincia.

E invece le carte in tavola sono proprio cambiate: l'ingresso degli arabi, dei qatarioti, degi oligarchi russi, dei fondi sovrani nell'universo pallone non è stato un male come qualche ultraconservatore sostiene, ma l'occasione di aprirsi per rinnovarsi. Pallone e soldi, strategie e posti di lavoro.

Ciò che l'Italia non ha fatto.

La contingenza dell'integrazione di popoli e genti ha trovato una summa calcistica in Germania, dove i tedeschi della cosiddetta Rete G2 (le seconde generazioni figlie di immigrati) hanno impreziosito la nazionale e i clubs. Basta dare uno sguardo a come i tedeschi giocavano dieci anni fa (arcigni, molto marcatori, con un gioco prevalentemente in verticale e con palle alte) e come sono diventati adesso: triangolazioni, sovrapposizioni, diagonali e fantasia. Tanta fantasia, come quella del turco-teutonico Ozil, punto fermo della Nazionale di Berlino.

Non è questo uno spot allo straniero in squadra tout court, ma un semplice esempio di come altrove si siano gestiti e amministrati i fenomeni sociali anche con un occhio a settori nevralgici come appunto lo sport, mentre in Italia il presidente federale Tavecchio appena nominato si caratterizzò per la gaffes sui giocatori di colore e le banane da sgranocchiare.

Circa gli stranieri il discorso è semplice e senza contaminazioni ideologiche o partitiche: se i settori giovanili sono intrisi di stranieri, con gli allenatori che strozzano la fantasia a bimbi di 8 anni urlando schemi e paper, allora è davvero finita.

E'da lì che bisogna ripartire: dai vivai, dalla consapevolezza che lo straniero può impreziosire un telaio già imbastito. Quello stesso telaio che Azeglio Vicini ebbe il coraggio di presentare all'opinione pubblica quando, dopo i fasti del 1982, trasportò in prima squadra quasi tutta l'Under 21, iniziando un ciclo.

Ecco, al netto di dimissioni che sono un obbligo morale (non per voglia di un capro espiatorio, ma perché è così che le persone per bene fanno) urge una strategia: il tempo non manca in verità, l'obiettivo adesso purtroppo è solo l'Europeo del 2020.

Riunire i nuovi che diventeranno migliori, farli dialogare come chiedeva Antonio Conte con i più piccoli anche grazie agli stages che la Lega rifiuta di netto, e ricominciare da zero. Pancia a terra, senza selfie, tweet o tatuaggi: solo col duro lavoro, quello che fa sudare e tirare fuori l'anima.

Valutando, perché no, che la politica deve essere uno strumento dello sport non un freno a mano: quando in Italia ci si accorge che solo Udinese e Juve hanno uno stadio di proprietà, che significa marketing, introiti da reinvestire e strumenti migliori ad appannaggio dei tifosi, si ha un quadro della situazione.

E aver fatto perdere a Roma le Olimpiadi è stato un altro di quegli autogol che si inseriscono in questo tragico filone.

Giova comprenderlo alla svelta: non è più solo una questione di schemi, giochi o anticipi: altrove c'è applicazione e professionalità per fare pil negli stadi. Da noi solo clan e politica.

 

twitter@ImpaginatoTw