Io, marito di una guardia medica. Il racconto di Pietro a Maperò


E' un lavoro rischioso, a farlo sono soprattutto le donne. E ora la Regione non vuole pagare più le indennità di rischio


di Lilli Mandara
Categoria: Maperò
09/11/2017 alle ore 11:30



Pietro è il marito di una guardia medica. E’ un marito come pochi, perché ogni notte che diocomanda accompagna la moglie al suo turno di guardia:  è un lavoro pericoloso, perché per strada di notte non si sa mai, e soprattutto non sai mai chi ti troverai di fronte, chi busserà alla porta dell’ambulatorio. E’ un lavoro rischioso, e a farlo sono soprattutto le donne. Pietro ha voluto raccontare a Mapero’ una giornata tipo, l’ha voluta raccontare dopo le polemiche esplose per le indennità di rischio che la Regione ora non vuole pagare più. “La guardia medica in Abruzzo lavora in un territorio orograficamente impervio, da sola, con un bacino di utenza di migliaia di  persone dovendo talvolta  raggiungere posti distanti anche decine di  chilometri dalla propria sede in tutte le condizioni meteo – scrive Pietro – La notte e’ un catalizzatore dei disagi sociali che convergono nell’unico punto in cui possono trovare accoglienza: la guardia medica. E con loro le problematiche e i potenziali pericoli che ricadono su chi la porta la deve aprire a chiunque e le visite domiciliari le deve fare per non incorrere in denunce penali per omissione di soccorso”. Leggetelo, Pietro, qui sotto la sua lettera.

Ore 19:55. Il viale è  buio. Anche l’ultimo lampione che lo illuminava ha deciso che la guardia medica
e il suo accompagnatore non meritavano più quel barlume per accedere al distretto sanitario.
La sede è li. Di giorno un brulichio di gente che reclama servizi sanitari, la sera un desolato posto silenzioso.
La porta esterna di vetro ed alluminio (quella che in teoria dovrebbe essere blindata) è aperta a 180 gradi e fermata con un sasso.
Quella interna, di legno, chiusa senza mandata mostra tutti i suoi anni e le sue debolezze facendosi aprire
senza troppe storie con un mezzo giro di chiave. Si chiude a chiave – per quello che vale – la prima porta avendo cura di mettere il sasso che  la fermava all’interno per evitare che diventi una possibile arma di offesa.
Si comincia. Sono le 20 e ci si deve assicurare che il luogo in cui ci si trova sia sicuro e che non ci sia nessuno “riparato” in qualche bagno per il pubblico.
Nessuno in giro per fortuna. Tutte le porte degli ambulatori sono chiuse a chiave e gli accessi secondari
sembrano essere a posto. C’è il letto da rifare e l’ambulatorio per le visite (gentile concessione per alcuni, obbligo da contratto per la legge) da aprire.
Anche oggi la vecchia segreteria telefonica è spenta. E’ li da più di venti anni e ogni qual volta manca la corrente o qualcuno stacca la spina bisogna registrare di nuovo il messaggio del risponditore. Da contratto ci dovrebbe essere un risponditore con segreteria, identificativo del  chiamante con registratore delle chiamate. Ci dovrebbe essere ma non c’è.
Appena sistemato il risponditore ecco che arriva la prima chiamata della serata. Un paziente in un paese ai confini del territorio  non respira bene. Si esce per la prima domiciliare.
Si chiude ciò che si può e si parte alla volta dell’indirizzo fornito. Dopo 20 minuti di macchina una luce accesa, una porta aperta ed una persona sull’uscio indica che siamo  nel posto giusto. L’accompagnatore attende in macchina il medico entra. La porta si chiude. L’attesa ed il conto alla rovescia cominciano.
Le viste domiciliari vanno da 15 minuti a oltre un ora a secondo di ciò che si trova. Nella borsa del medico c’è di tutto: farmaci per le urgenze, strumenti medici, garze cerotti, guanti, etc. Non c’è il pronto soccorso o un reparto come in ospedale, può contare solo sulla sua esperienza e su ciò che ha nella borsa. E’ l’ultimo avamposto della medicina territoriale a quell’ora di notte.
E’ la persona che può fare la differenza tra la vita e la morte. Finalmente la porta si apre di nuovo lasciando trasparire la luce delle scale e fuori. L’ansia e la preoccupazione scemano nell’accompagnatore che finalmente ritrova la compagnia del suo prezioso passeggero. Il paziente sta meglio. La terapia somministrata ha funzionato. Si torna in sede.
Sono quasi le undici. Il telefono squilla di nuovo. Questa volta è la centrale operativa del 118. C’è un’emergenza ma l’unica ambulanza disponibile per un territorio di oltre 30000 abitanti è già impegnata. Viene chiesto alla guardia medica di andare sul luogo per prestare le prime cure. Ogni volta che si sceglie di andare si corrono dei rischi e ci si assumono responsabilità che nessun contratto prevede o retribuisce. La guardia medica copre solo le urgenze ma in questo caso a suo rischio e pericolo (non è attrezzata per gestire le emergenza come il 118) va per dare al paziente un primo soccorso in attesa che si liberi l’ambulanza.
Si parte. Si corre, per quello che si può rispettando il codice della strada. La macchina è quella personale senza insegne o lampeggianti e non ha privilegi nel traffico.
Si ripete la stessa scena vista in precedenza. La concitazione dei parenti è evidente. Il paziente ha bisogno di un trasporto immediato in ospedale con l’ambulanza. Tutti si augurano di vedere presto il blu dei lampeggianti illuminare la notte. Di più  se lo augura il medico che adesso sta facendo il possibile per  fare in modo che quel paziente abbia la sua chance di vedere un nuovo giorno.
L’adrenalina è al massimo. Finalmente quel blu tanto agognato squarcia la notte e il paziente viene caricato e immediatamente trasportato verso l’ospedale. Questa volta è andata bene. Altre no.
Al rientro in macchina scende il silenzio. Un silenzio fatto di comprensione e di decompressione da quella scarica di adrenalina. E’ notte fonda quando si rientra in sede. Il tempo di stendersi che il videocitofono annuncia un nuovo “cliente”. Sono le 2:38. Dal display rotto non si riesce a capire chi c’è oltre la vetrata.  Il medico va ad  aprire. A breve distanza l’accompagnatore segue l’incontro. E’ il solito drogato a caccia di siringhe. Il medico gli dice di aspettare sulla porta ma lui non le da’ ascolto.
Da quell’angolo buio e con voce ferma l’accompagnatore invita l’ospite notturno a rimanere dove è e seguire le indicazioni del medico. L’ospite sa, capisce e torna sull’uscio ad attendere ciò per cui è venuto. Avutolo va via. Si chiude per quanto possibile e si torna a riposare. Di nuovo lo squillo del telefono. Sono le 4:37. Un attacco di panico in corso. 25 minuti di telefonata e rassicurazioni riportano in condizioni normali una paziente ben conosciuta nell’ambiente. Si chiudono ancora un pò gli occhi. Alle 6:50 la sveglia ricorda che tra poco comincia un nuovo giorno e un’ orda di pazienti agguerriti assedierà quel posto per fare la fila al CUP o per i servizi ambulatoriali. Si sgombra l’ambulatorio usato per le visite notturne, si ritirano gli effetti personali. Sono le 7:35:l’accompagnatore ha terminato il suo turno notturno e si avvia per la sua strada che lo condurrà al suo lavoro diurno. E’ stanco ma sereno perché un’altra notte è passata senza problemi e chi ha protetto sta tornando a casa.